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Francesco Masala, un intellettuale contro

Francesco Masala, un intellettuale contro

di Franco Carlini

Cenni biografici

 

L’atmosfera a suo modo felice, mitica, descritta nella ballata, s’incrina quando i fanciulli contadini sono rinchiusi in un’aula scolastica per affrontare un’esperienza linguistica lontana dalle loro competenze e interessi. È lo stesso Masala a parlacene.

 

“Sono nato in un villaggio di contadini e di pastori, fra Goceano e Logudoro, nella Sardegna settentrionale e, durante la mia infanzia, ho sentito parlare e ho parlato solo in lingua sarda: in prima elementare, il maestro, un uomo severo sempre vestito di nero, ci proibì, a me e ai miei coetanei, di parlare nell’unica lingua che conoscevamo e ci obbligò a parlare in lingua italiana, la «lingua della Patria», ci disse. Fu così che, da vivaci e intelligenti che eravamo, diventammo, tutti, tonti e tristi” (da Il Parroco di Arasolè, Edizioni Il Maestrale, 2001, p. 121). In queste parole Francesco Masala riassume in modo sintetico uno degli aspetti fondamentali della sua infanzia, i disagi patiti nella scuola di Stato, e pone polemicamente uno dei problemi che hanno connotato la sua attività di intellettuale: il rapporto tra stato italiano e “la nazione sarda” come amava definire la Sardegna.

Francesco  (Ciccittu) Masala, nacque a Nughedu S. Nicolò 17 settembre 1916 da una famiglia benestante. Il padre, originario di Ittiri, si chiamava Antonio Giuseppe, la madre, Rosina Serra, figlia di una maestra elementare, era di Bonnannaro. Ebbero 5 figli, tre maschi e due femmine, di cui una morì piccolissima.

Antonio Masala commerciava in granaglie, olio, formaggio, raggiungendo anche i mercati della Penisola. Questa condizione di agiatezza della famiglia permise a Francesco la frequentazione delle medie e del ginnasio a Ozieri e del liceo classico a Sassari. Si laureò in lettere alla Sapienza di Roma con Natalino Sapegno discutendo una tesi su Pirandello, e subito dopo fu spedito sul fronte jugoslavo come ufficiale di complemento, quindi su quello russo, dove fu ferito e meritò una medaglia al valore militare.

Dopo il congedo si dedicò all’insegnamento. Nel 1947 è professore di materie letterarie in una scuola media di Sassari. In seguito si trasferì a Cagliari dove insegnò sempre in una scuola media, poi come docente di ruolo nell’Istituto Magistrale Eleonora D’Arborea. Nel capoluogo sardo trascorrerà i restanti anni della vita e vi morirà il 23 gennaio del 2007.

Tra le sue amicizie vanno ricordate quella con Emilio Lussu, Giovanni Lilliu, Giuseppe Dessì, Aldo Capitini, Salvatore Cambosu, Michelangelo Pira, Giulio Angioni ed Aquilino Cannas.

Come giornalista pubblicista, fino al 1991, pubblicò 360 articoli, collaborando a molte testate giornalistiche e a periodici sardi. Dal 1958 al 1962 fu critico d’arte ufficiale de L’Unione Sarda, ma scrisse anche sulla Nuova Sardegna, su Nazione Sarda di Antonello Satta e S’ischiglia di Angelo Dettori ed Aquilino Cannas. Suoi scritti apparvero su Paese Sera, un quotidiano romano di sinistra, ma anche sul Messaggero Sardo, il periodico dei nostri emigrati.

Francesco Masala fu presidente della commissione del Premio letterario Città di Ozieri e, nel 1978, del Comitadu pro sa limba, che promuove la Proposta di legge d’iniziativa popolare per il bilinguismo perfetto in Sardegna, cui 11 anni dopo si rifarà la Legge regionale n. 26/79 per la Promozione e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna.

Masala, che era solito dire che per uno scrittore i riconoscimenti, quelli veri, arrivano solo dopo la sua morte, aveva già vinto il Premio Grazia Deledda 1951 e il Premio Chianciano 1956 per Pane nero. Mette conto ricordare anche che da Quelli dalle labbra bianche nel 1999 fu tratto il film dal titolo Sos Laribiancos  ̶  I dimenticati, sceneggiato e diretto da Piero Livi, che meritò la menzione d’onore al Palm Springs International Film Festival. Nel 2008 fu realizzato il cortometraggio d’animazione Dopo trent’anni prima, di Silvio Camboni, ispirato al racconto Apologo dell’uomo bue e dell’uomo cacciavite, e nel 2015 il doc/film, Vinti ma non convinti, di Marco Gallus.

Infine, degno di nota il fatto che la cantautrice Marisa Sannia chiese la collaborazione di Masala per alcuni brani di musica pop.

 

Opere

Opere, Alfa Editrice, Quartu Sant’Elena, 1993, 2 voll. (Si tratta dell’opera omnia, dove si trovano tutte le opere e gli articoli pubblicati fino al 1991 e da cui sono stati presi i brani di questo scritto).

 

Opere letterarie:

Poesie, Roma, Gastaldi, 1951.

Pane nero, prefazione di Giovanni Titta Rosa, Siena, Maia, 1956. Traduzione in russo, jugoslavo e spagnolo.

Il vento. Pane nero, Siena, Maia, 1960. Traduzione in francese, 1992.

Quelli dalle labbra bianche, Milano, Feltrinelli, 1962; edizioni de Il Maestrale, 1995, 2005, 2008. Traduzione in ungherese 1975 e 2000, e in francese da parte di Claude Schmitt con il titolo Ceux d’Arasolè, Zulma, 1999.

Lettera della moglie dell’emigrato, Milano, Feltrinelli, 1968.

Storia dei vinti  ̶  Poesie, Milano, Jaca Book, 1968, 2a ed. 1974.

Poesias in duas limbas, con testo italiano a fronte, Milano, Scheiwiller, 1981, 2a ed. 1993, 3a edizione, Nuoro, Il Maestrale, 2006. Traduzione in francese con  Storia dei vinti di Claude Schmitt e Savina Lella con il titolo Le braconnier et autres poèmes de Sardaigne, Arles, Actes Sud, 1984.

Il dio petrolio, Cagliari, Edizioni Castello, 1986; ripubblicato con il titolo Il parroco di Arasolè, Nuoro, Il Maestrale, 2001. Traduzione in francese di Claude Schmitt e Alain Sarrabayrouse con il titolo Le curé de Sarrok, Arles, Actes Sud, 1989.

Racconti per ragazzi, tradotti dal barbaricino in logudorese, Cagliari, Dattena, 1991.

Emilio Lussu, il capotribù nuragico, 1979; Gramsci ovvero l’uomo nel fosso, 1981; Sigismondo Arquer, al rogo!, 1987, sono radiodrammi scritti per la Rai.

 

Il teatro

 

Masala, che si era laureato con una tesi su Pirandello, era attento agli spettacoli che si producevano e si allestivano a Cagliari e più in generale in Sardegna. Da questo interesse è nato il saggio Storia del teatro sardo e la collaborazione con registi e scrittori per la stesura di opere teatrali nell’ottica della cultura contadina che era al centro della sua riflessione e delle sue opere letterarie. Bisogna anche dire che uomini di teatro e non hanno messo su spettacoli traendoli dalle sue opere, in special modo da Quelli delle labbra bianche, di cui si hanno diverse edizioni in sardo logudorese ma anche in campidanese e in italiano.

A un anno dalla sua morte a Cagliari è stato istituito il Premio Francesco Masala per il teatro.

Tra le opere teatrali che riconducono al nome dello scrittore si annoverano:

Carrasegare, coautore Gian Franco Mazzoni, Cagliari, Cooperativa Teatro di Sardegna, 1978.

Quelli dalle labbra bianche, riduzione di Masala e di Giacomo Colli che ne cura anche la regia, Cagliari, Centro di Iniziativa Teatrale, 1975.

Su Connottu di Romano Ruju, con un prologo e un epilogo di Masala, Cooperativa Teatro di Sardegna, 1976.

Ammentos, opera tratta dal nucleo centrale del romanzo Quelli dalle labbra bianche, scritto in logudorese dall’autore e rielaborata da Maurizio Carrus, Antonio Garau, Antonino Medas, Enzo Parodo e dallo stesso Masala, 1984. Esiste anche una versione in campidanese fatta da Aquilino Cannas.

Laribiancos tratto da Quelli dalle labbra bianche e prodotto dalla Cooperativa Cada Die Teatro.

Ehi, bona genti, azione teatrale con azioni gestuali costruite da Giampietro Orrù su e con le ballate di Quelli dalle labbra bianche e Poesias in duas limbas, 1984.

Memorias, dramma di Mario e Gianluca Medas, tratto da Sos laribiancos, 1987.

Laribiancos monologo di Pierpaolo Piludu tratto sempre da Quelli dalle labbra bianche.

 

Masala saggista

 

Masala oltre che critico d’arte è stato anche critico letterario in vari giornali e periodici. A lui si devono varie prefazioni a sillogi poetiche, tra le quali è da ricordare quella a Poesias di Peppino Mereu, edite da Della Torre nel 1978, e la cura e la traduzione di Antologia di Montanaru, Cagliari, La Zattera Editrice, 1968.

Si distinse soprattutto come saggista o, comunque, come scrittore di opere non letterarie, diverse per contenuto, come:

Vacanze in Sardegna, coautore Marcello Serra, pubblicata dalla Regione nel 1955, tradotto in francese da P. L. Marchetti, Vacances en Sardaigne  Itinéraires touristique; in spagnolo di Joaquin Arce: Vacaciones en Cerdeňa  ̶  Itineràrios turìsticos.

Il riso sardonico, Cagliari, Gia, 1984.

Storia del teatro sardo ̶ Storia della produzione teatrale in Sardegna, Alfa Editrice, 1987, 2a ed. 1990.

Storia dell’acqua in Sardegna, Cagliari, Alfa Editrice-Eaf, 1987, 2a ed. 1991.

Autonomia e arte in Sardegna, Quartu Sant’Elena, Alfa Editrice, 1988.

S’istoria  ̶  Condaghe in limba sarda, Alfa Editrice, 1989.

Sa limba est s’istoria de su mundu ̶ Condaghe de biddafraigada, Cagliari, Condaghes, 2000.

Manifesto della gioventù eretica del comunitarismo e della Confederazione politica dei Circoli, con Eliseo Spiga e Placido Cherchi, Cagliari, Zonza, 2000.

 

Un intellettuale contro

 

Chi ha conosciuto Masala, o ha semplicemente ha letto i suoi scritti, ricorda che era in lotta su vari fronti, spinto da una moralità che qualcuno giudicava arcigna. Da un’onestà intellettuale e da una coerenza non comuni, sarebbe meglio dire.

Per le sue prese di posizione eccentriche rispetto alla maggioranza degli intellettuali sardi, Francesco Masala potrebbe essere definito “un intellettuale contro”, contro il sistema, si capisce, da uomo di sinistra qual era, ma anche da intellettuale che combatte per una Sardegna diversa da quella della seconda metà del ’900.

In un primo momento, come del resto tutta la sinistra, Masala fu un sostenitore del Piano di Rinascita e della politica dei poli industriali, che avrebbe dovuto assicurare lavoro ai sardi e vinto la piaga del banditismo delle zone interne. Quando nel 1967 Angelo (Nino) Rovelli acquistò L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna per ottenere il consenso dei sardi al suo progetto di un impianto petrolchimico a Portotorres, Masala insorse nel momento in cui prese coscienza che la Sardegna era minacciata nella sua economia tradizionale, nella lingua e nella cultura e che dall’industrializzazione etero diretta non ci si poteva aspettare altro che un clamoroso fallimento. Abbandona prima La Nuova Sardegna (1969), poi L’Unione Sarda (1975) e diventa un cane sciolto, come amava definirsi lui stesso.

 

Come professore di letteratura e storia, egli fu contro la scuola tradizionale, non tanto sulla base di una pedagogia, una metodologia studiata sui libri quanto per un profondo senso della democrazia e di una visione unitaria che aveva del sapere, dove politica, pedagogia, economia, arte, letteratura, scienza e così via sono viste in un rapporto strettissimo, in cui nessuna articolazione sovrastrutturale è in una posizione ancillare rispetto a una predominante, la politica, ad esempio, secondo la teoria zdanoviana ancora viva nella sinistra italiana. Democrazia a scuola, per lui significava rompere il consolidato rapporto studente-docente, che vede quest’ultimo, in quanto detentore della conoscenza, posto su un piano di superiorità, che toglie spazio e libertà di giudizio al discente. Lui amava, e praticava, un rapporto paritario, che si concretizzava in una continua dialettica, dove l’arte dell’insegnare non significava trasmissione di dati, bensì educare, educare all’impegno e al senso di responsabilità innanzitutto. Le sue ore di lezione non prevedevano tanto l’assimilazione di nozioni di storia e di letteratura, quanto il loro riscontro nella cronaca, anche di stretta attualità, cronaca culturale, politica, economica, sociale, di costume. Tutto era occasione di discussioni, senza prevaricazioni, o tentativi di indottrinamento ideologico.

Le novità librarie, non solo isolane, erano poste all’attenzione degli studenti come quando, anche nelle librerie sarde, arrivò Bonjour Tristesse (1954) di Françoise Sagan, un  best seller sul piano europeo. Masala fece girare tra i banchi le bozze di Pane nero, senza dire altro che erano di un suo libro di prossima pubblicazione. E fu un motivo di discussione sulla letteratura.

Un strumento didattico, abbastanza originale per quei tempi, fu quello che Masala chiamava “taccuino”. Gli studenti erano invitati a stendere su un quaderno tutto quanto ritenevano degno di nota o di approfondimento. Fu così che in poco tempo si riempirono quaderni di riflessione sulla letteratura, sulla storia passata ma anche su quella contemporanea e i suoi problemi. E ci fu chi fece le sue prime prove letterarie. Masala leggeva tutto e alla fine del trimestre restituiva i “taccuini” con una breve nota.

Nel suo insegnamento si distinse anche per le esclusioni “clamorose” per quei tempi (si era nella prima metà degli anni Cinquanta), quando Carducci-Pascoli-D’Annunzio costituivano una triade intoccabile, che nessuno, o quasi, osava mettere in discussione.

Di Carducci, liquidato con l’appellativo di trombone, ripudiava la retorica patriottica, anacronistica rispetto a un periodo in cui la borghesia italiana era tutta intenta a fare affari piuttosto che celebrare i fasti di un Risorgimento perso nella nebbia dei ricordi. A dispetto del Premio Nobel per la letteratura, Masala si prese gioco del Carducci. Rifacendosi alla famosa poesia Il bove dichiarò, sarcastico, di non riuscire a capire come un uomo potesse amare un bove, sia pure pio.

E non andò meglio a Giovanni Pascoli, giudicato uomo immaturo, ancorato a una poesia autobiografica con la pretesa da parte dell’autore di assurgere a simbolo del dolore universale. E si diverte a riportare i versi pascoliani della poesia Valentino, dove è dato leggere “Un cocco!/ecco ecco un cocco un cocco per te!”.

L’estetismo di D’Annunzio, quello letterario e quello esistenziale, era quanto di più lontano poteva esserci dalla poetica e dalla sensibilità di un scrittore nato in una società pastorale, che si nutriva di ideali di giustizia sociale e che degli umili abitanti dei villaggi sardi voleva essere il cantore e il difensore. “Perché non sono io coi miei pastori?” gridava invece D’Annunzio, mentre viveva nel lusso, osannato dal mondo dorato dell’alta società cittadina, che insieme a lui si nutriva della retorica fascista che lui stesso aveva alimentato e continuava ad alimentare. Masala giudicava D’Annunzio senza mezzi termini corresponsabile dell’ascesa del fascismo ergendosi a giudice implacabile davanti al pubblico dei suoi alunni, attenti alle parole di un insegnante tanto diverso dagli altri. Furono le uniche ore in cui la politica era entrata in modo diretto nelle lezioni di letteratura.

 

I politici. La politica. Lo scrittore più di una volta si scontrò con i partiti politici isolani, che definiva succursali delle segreterie romane italiote, così le chiamava, e se la prendeva quasi sempre con i partiti di sinistra o con uomini del partito sardo con attacchi violenti coloro ritenuti responsabili dell’eteronomia della Sardegna, innescando polemiche sulla stampa, in convegni e in privato, ripetendo ad ogni occasione l’accusa contro la politica regionale.

Masala, però, contrariamente a quanto si può pensare, era fondamentalmente un intellettuale tollerante, anche per l’amicizia con Aldo Capitini, ma diventava intransigente di fronte all’incoerenza, alla mala fede, alla furbizia, alla chiusura a riccio di chi non tentava neppure di stare ad ascoltare l’avversario.

Lo scontro più duro lo ebbe con Mario Melis, il leader del Partito sardo d’azione, che dopo il cosiddetto vento sardista delle elezioni del 1984 a parere di Masala non realizzò niente, o quasi, del programma culturale del suo partito, e presentò un disegno di legge sulla lingua e la cultura sarda solo il giorno prima della fine della legislatura. Si racconta di uno scontro durissimo tra i due durante la registrazione di un confronto che doveva essere trasmesso da una TV locale. La trasmissione non andò mai in onda.

Un altro politico che detestava, anche se non arrivò a manifestare apertamente il suo dissenso, è stato Renato Soru. A chi gli domandava un parere sul neo eletto presidente della giunta regionale della Sardegna, rispondeva:  ̶ È nient’altro che il Berlusconi sardo, accomunato a quello milanese per i soldi e per il decisionismo.

La differenza, sottolineava Masala ironicamente, è che uno era di centro destra, l’altro di centro sinistra, dando ad intendere che poi non esisteva alcuna differenza politica tra i due. E non si capacitava che a rappresentare la Sardegna nelle fila dei DS, erede del partito di Gramsci, ci fosse un milionario.

 

Con il Pci i rapporti non furono facili, benché Masala avesse parecchi amici in quel partito. Con la pubblicazione di Quelli dalle labbra bianche lo scrittore fu attaccato per la descrizione dei campi di concentramento sovietici dove i prigionieri erano costretti a sfamarsi dando la caccia ai topi o praticando il cannibalismo sui corpi dei compagni caduti. Per il Pci era inaccettabile l’immagine che dell’Urss dava lo scrittore, non era possibile che accadessero fatti del genere, dunque quei fatti erano pura invenzione.

Durante la campagna per la raccolta delle firme per la petizione popolare che chiedeva l’introduzione del perfetto bilinguismo nelle scuole sarde, la federazione del Pci nuorese inviò una lettera alle sezioni del partito diffidando i suoi iscritti dal sottoscrivere la petizione in quanto parte di un progetto separatista. È inutile dire che Masala la prese malissimo per questo modo, che giudicava greve, di affrontare una questione molto seria.

Anche con il Psi, di cui aveva la tessera, lo scrittore ebbe più di un’occasione per scontrarsi. Amava la chiarezza e credeva di non trovarne a sufficienza:  diceva le sue verità senza infingimenti e gli si impediva di parlare, o gli si toglieva la parola quando riusciva a prenderla. E fu contro il Psiup sardo di Lussu per la concezione centralista del partito e contro i baroni delle tessere, ma di questo parlerà quasi certamente Francesco Casula. Uno dei socialisti con cui andava d’accordo era Sebastiano Dessanay che gli era amico e con cui riusciva a imbastire un discorso senza che questo degenerasse.

 

Ma il suo disprezzo raggiungeva l’apice quando si scagliava contro gli intellettuali che, a dirla con lui, avevano fatto della questione sarda un modo per trarne vantaggi economici. Con gli amici, ma non solo, faceva nomi e cognomi, e l’elenco era lungo.

I rapporti con il mondo accademico non furono molto diversi rispetto a quelli con il mondo politico. Lo accusava di vivere chiuso in una torre d’avorio, lontano dai problemi della Sardegna, di non fare fino in fondo studi sulla lingua e la cultura sarda, di non dare il giusto rilievo agli studiosi, come Francesco Alziator, accusato dai cattedratici di fare ricerca in modo non consono alla metodologia accademica, e quando Alziator divenne accademico lui stesso fu emarginato come un intruso. Fu questa l’accusa che lanciò alla sua maniera contro Piero Meloni, andato ad assistere alla presentazione della Storia del teatro Sardo.

A questo proposito, ai rilievi mossi da certi ambienti universitari di non aver corredato di note il suo lavoro, lui rispose che l’aveva fatto a ragion veduta, per fare un torto proprio a loro. Gli accademici, se volevano la bibliografia, potevano fare il lavoro di ricerca che aveva fatto lui: per questo erano pagati dallo Stato!

Come sappiamo si batté fino all’ultimo in difesa della lingua e della cultura sarda, deriso non poche volte da chi preferiva che nelle scuole sarde si insegnasse l’inglese al posto del sardo, l’inglese che “ti apre al mondo intero e alle sue infinite possibilità”. Anche su questo ebbe un’opinione diversa da certi cattedratici, senza arrivare a uno scontro diretto con loro. I quali sostenevano che l’unica salvezza della lingua sarda poteva avvenire solo se i sardi continuavano a parlare la loro lingua. Masala, che aveva capito come girava il mondo, dove la televisione in lingua italiana tagliava la lingua dei genitori delle nuove generazioni, sosteneva, al contrario, che l’unica salvezza poteva venire solo se il sardo entrasse come materia curriculare nei programmi scolastici, con pari dignità con l’italiano, obbligatorio in tutti gli ordini e gradi della scuola.

  • Fu inascoltato, ancora una volta. E dire che non ha potuto assistere all’uso di ben tredici milioni di euro che sono stati buttati al vento in iniziative per promuovere la diffusione della cosiddetta limba sarda comuna, usando quei soldi come randelli da parte di personaggi accecati dall’arroganza che non si è fermata davanti a niente e a nessuno.

Masala, a proposito di ripetutiti tentativi di imporre a tutti i sardi una lingua unica, di stampo logudorese, affermava perentoriamente “massima libertà lessicale, massima autoritarismo ortografico”. Che era un suo modo di affermare la necessità della sopravvivenza delle varietà linguistiche esistenti in Sardegna contro il tentativo di imporre sa limba sarda unificada per decreto assessoriale. In questo settore il discorso è ancora aperto, ma c’è da essere certi che ci sono tutte le premesse perché Francesco Masala prima o poi sarà riconosciuto di nuovo come precursore, non tanto per le sue “qualità profetiche”, ma per l’insipienza di certi “studiosi” e politici che si sono gettati allo sbaraglio, sempre in minor numero, fortunatamente.

 

In un’intervista, dal titolo Dio Petrolio ha generato dei mostri, rilasciata a Mario Faticoni per l’uscita ormai imminente del romanzo Il Dio petrolio, Masala lanciò un’accusa contro la politica regionale e nello stesso tempo contro gli intellettuali isolani in modo a dir poco impietoso. E il bersaglio principale era Antonio Pigliaru. Diceva:  ̶  Dopo trent’anni di malgoverno, la Regione si è “intesa” per nominare un comitato per festeggiare il trentennio. Gente allegra! Intanto l’intellighenzia borghese sarda fa da mediatrice  italiota con  mass media del Dio Petrolio (vinti e convinti):  i neo marxisti borghesi, dopo aver accantonato la lotta di classe, hanno accantonato Gramsci e Lussu e indicano, sulle colonne dei giornali al catrame, il nuovo maestro, il filosofo gentiliano orunese, condannato dal Tribunale militare di Oristano il 29 novembre del 1944 a sei anni di galera per aver tentato un golpe fascista, cioè di aver tentato di rimettere intorno al collo dei sardi quelle catene naziste spezzate da poco più di un anno. Tutto c’è oggi in Sardegna. Anche l’incredibile. Tutto, ripeto, e il contrario di tutto. Cattolici che amoreggiano con Marx e ripudiano il tomismo. Marxisti che amoreggiano con il tomismo e ripudiano il marxismo. Intantu, chie nde hada mandigada e chi non nde hada s’impìccada. Bene frades caros, continuiamo così: i nostri figli verranno a scaracchiare sulle nostre tombe (Tutto Quotidiano, 13.XI. I977).

La reazione a queste parole non si fece attendere. Su Tutto Quotidiano, su cui si concentrò tutta la polemica (Antonio Pigliaru e Gentile, ivi, 18. XII. 1977), Federico Francioni, non nega l’accusa mossa a Pigliaru di essere stato un gentiliano, ma tenta in qualche modo di darne una giustificazione.  Non dice però una parola su quello che Masala ricorda come un tentato golpe fascista del ’44. Nel numero del 20 dello stesso mese, ci  sono due interventi a difesa di Pigliaru, uno di Aldo Brigaglia, l’altro di Antonio Delogu, presentati da Antonio Pinna che si premura di sminuire la portata del tentato golpe di destra di Pigliaru affermando che “il protagonista parlava (di questo episodio, N.d.R.) come di un momento del suo pensiero”.

Aldo Brigaglia parla invece di un infamante attacco […] a Pigliaru che viene accusato di trascorsi fascisti. ̶  Quest’etichetta […] è certamente riduttiva se pretende di dare una definizione complessiva di Pigliaru”. E finisce l’intervento, per contro, accusando Masala di avere intrattenuto rapporti con un esponente della destra sassarese.

Antonio Delogu, invece, punta su alcune osservazioni, che “la verità del discorso di Masala  sta un po’ stretta e ricorda che Pigliaru, oltre a essere stato il fondatore di Ichnusa e l’autore di La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, e che dopo la parentesi fascista è stato “radicalmente democratico, radicalmente antifascista […] e ha educato tutti coloro che ebbero la felice avventura di conoscerlo.

Marina Addis Saba, d’altro canto, accusa Masala di parlare di Pigliaru “in termini tanto falsi e riduttivi” perché non ha conosciuto lui e la sua storia, e afferma che Pigliaru può essere accostato a buon diritto a Gramsci e a Lussu, “come maestro di non minor rispetto”.

Di tutt’altro tono l’intervento di Giuseppe Melis Bassu (Il passato che pesa agli altri, ivi, 22.XI, 1977). Egli comincia dicendo che la diffamazione è a misura delle “mezze calzette” (e tra queste sembra includere anche Masala nel momento stesso in cui lo nega) ed è generata dall’invidia. Difende il passato di Pigliaru ricordando che nel ’44 egli aveva solo 22 anni (il suo fu dunque un errore giovanile), e le sue scelte vanno collocate nel “fascismo storico” e poi nel clima politico della Sassari di quell’anno. Parlando, senza riferirsi direttamente a Masala, Melis Bassu si chiede:  ̶ Ma è possibile che non riusciamo a liberarci da questo modo cretino di distinguere fascismo e antifascismo? ̶ , e conclude con l’affermazione che Pigliaru era oggetto di attacchi non per quello che aveva fatto ieri ma per quello che diceva oggi.

E Masala, dopo il suo intervento, che un po’ tutti giudicavano una provocazione, taceva. A lui bastava aver lanciato un sasso sulle acque stagnanti della politica e dell’intellettualità isolana e vedere l’effetto che avrebbe prodotto. Era un suo modo di agire e non si smentì neppure quella volta.

Un altro intellettuale contro cui scagliò i suoi strali, ma per tutt’altro motivo, fu Michelangelo Pira, e su un campo che gli stava particolarmente a cuore. Ricordando la figura e l’opera del poeta contadino Pietro Mazza quale difensore del bilinguismo perfetto, “un precursore, un intellettuale organico, un furioso e geloso interprete della sarditudine (Il gufo con gli occhiale, La Nuova Sardegna, 22.XII.1980), prende spunto da un epigramma dello stesso Mazza contro Pira, per ricordare un saggio sulla questione sarda, dal titolo Un passo avanti verso la salvezza, (1961), dove l’antropologo bittese dice di ripudiare i dialetti e la cultura sardi per l’adozione della lingua e la cultura italiana. Masala bolla la scelta di Pira con queste parole:  ̶  Pedru (Mazza) ebbe in sorte di morire prima dell’avvento del monolinguismo italiota petrolchimico, Michelangelo, invece, è stato accontentato: ebbe in sorte, prima di morire, di poter vedere le raffinerie che “parlavano in italiano” ma “mangiavano in sardo”. La monocultura al catrame ha scritto, in lingua italiana, tutto il Piano di rinascita, con i risultati che tutti conosciamo.

Prendendo spunto dal fatto che il saggio di Pira era apparso su Ichnusa, Masala coglie l’occasione per riprendere la polemica contro Antonio Pigliaru  e accusare il periodico sassarese di essere responsabile “nella perdita d’identità degli intellettuali sardi, […], la rivista che cucinò nella stessa padella, Gentile, san Tommaso e Gramsci conditi da un pizzico di folklore giuridico barbaricino, sfornando un minestrone a base di neo-idealismo postfascista, di neo-tomismo da compromesso storico e di neo-marxismo borghese, senza alcuna pietà né per la “sarditudine” né per la malasorte dei “vinti”.

 

Per le sue scelte in difesa della Sardegna, della sua lingua e della sua cultura, della economia tradizionale; per l’accusa martellante contro i padroni di turno, interni o “venuti dal mare”;  per aver dato voce ai “vinti” con un linguaggio semplice quanto efficace, alla portata di tutti; per la bellezza di una poesia che nasceva dalle viscere della sua terra, Masala è riuscito a diventare il punto di riferimento, un mito, per quella vasta composita area politica del neosardismo, termine usato alcuni decenni fa per distinguerlo dal sardismo istituzionale rappresentato dal Psd’az. Diversi gruppi politici di estrazione e orientamento sardista in contrasto tra loro sono però accomunati nell’esaltazione di Eleonora d’Arborea, vista come la giudicessa che aveva difeso l’indipendenza della Sardegna contro le mire espansionistiche della monarchia aragonese, nonché grande legislatrice, ancora oggi chiamata “Regina dei sardi”, come dice orgogliosamente chi non riesce a liberarsi dal mito. Ebbene, Masala spiazzò tutti raggelando i loro facili, ingiustificati entusiasmi.

Eleonora d’Arborea? Anche lei era una straniera, nata per di più in  Catalogna, dice Masala, e come tale non poteva essere oggetto di idolatria, celebrata come un’eroina fino a diventare il simbolo delle lotte per l’indipendenza e la libertà della Sardegna. Al lei interessava solo la difesa del suo giudicato, non la  “nacion sardisca”, il cui territorio vedeva come terra di conquista, così come era stato per i suoi antenati; e le interessava la sorte del marito Brancaleone Doria, tenuto ostaggio nella corte d’Aragona, per la cui liberazione sacrificò tutti i territori conquistati dal padre Mariano IV, cedendoli di nuovo agli aragonesi.

 

In pieno Piano di Rinascita erano molti che, attratti dal miraggio dell’industrializzazione della Sardegna, tessevano le lodi della nuova era. Masala, dopo una prima adesione, come si è detto, prevedeva, profeticamente, disastroso quell’intervento, e parlava di un autentico terremoto antropologico. Cattedrali nel deserto definiva le fabbriche dell’industria petrolchimica sparse nell’Isola, e nuraghi arrugginiti. E in un’intervista rilasciata a P. Pillonca nell’ambito di una rubrica Rai dal titolo S’Arrejonada del 2002, dopo aver ringraziato il giornalista per l’occasione che gli dava di dire la sua, a lui che era censurato sia alla radio sia alla televisione, a un certo punto del discorso chiedeva polemicamente perché le basi militari e le industrie petrolchimiche non andassero a metterle in Piazza Duomo a Milano e a Piazza san Pietro a Roma.

Contro gli intellettuali, specialmente giornalisti, che scrivevano nei giornali acquistati da Rovelli magnificando il “Dio Petrolio”, come pure il “Dio Cemento” che spargeva a piene mani ricchezza tra i caprai dei Monti di Mola, prima che le sue spiagge si trasformassero nella  Costa Smeralda dell’Aga Khan, Masala manifestava il suo disprezzo chiamandoli, canes de isterzu, o pisciatinteris, scribacchini, al servizio del potere. Se la vulgata traduceva canes de isterzu come “cani leccapiatti” e lo scrittore lasciava correre su questa interpretazione, in realtà per lui canes de isterzu significava “cani da guardia” de su isterzu, dove isterzu sta per “bagaglio”,  cioè sa bértula o sa muciglia, in cui i contadini e i pastori mettevano il cibo per una giornata di lavoro in campagna. Cani messi a difesa degli averi, più in generale degli interessi dei padroni, dunque.

Impietoso il suo atteggiamento verso la stampa. Seguendo la sua convinzione per cui la letteratura non può essere avulsa dai temi sociali, quando scriveva sui giornali scantonava, parlando d’altro, non di quanto ci si aspettava da lui. I direttori e i responsabili delle pagine culturali volevano che collaborasse limitandosi a scrivere di poesia, di letteratura. Lui era un poeta, uno scrittore, o no?. E fu scontro e fu estromissione: ostracismo, sarebbe meglio dire. Quando qualcuno fece notare che in un’altra regione a Masala avrebbero fatto ponti d’oro, allora fu chiamato, obtorto collo, a collaborare di nuovo, mettendogli però accanto un censore, un cane da guardia. Accadde a L’Unione Sarda, in cui sulla stessa pagina, a fianco dell’articolo dello scrittore, c’era un pezzo che faceva il controcanto alle sue parole.

Lui a sua volta, al solito non usava le mezze misure. Facendo la storia del quotidiano cagliaritano, scrisse che era stato coccortiano nell’era di Giolitti; fascista durante il ventennio (ricordava che sotto la testata c’era la scritta “Dove il Duce vuole”); democristiano nel secondo dopoguerra; di centro sinistra nella Prima Repubblica, con simpatie berlusconiane in seguito.

 

– Non pensa che questo suo modo di agire contro tutto e tutti possa essere  giudicato un atteggiamento da anarchico? – gli domandai una volta. E lui fissandomi negli occhi come era solito fare, – Io sono un anarchico, –  mi rispose –, e non sarò certamente io ad offendermi se qualcuno me lo dice.

Negli ultimi anni della sua vita era arrivato alla conclusione che non fosse possibile alcun riscatto del popolo sardo, se si continuava a rimanere attaccati al cordone ombelicale dell’Italia. Ed affermò che l’unica via da percorrere era quella dell’indipendentismo.

Ufficialmente, per ammortizzare la portata provocatoria e, a suo modo, rivoluzionaria delle sue prese di posizione, ufficialmente dico, era gratificato con l’appellativo di “simpatico rompiscatole”, ma erano molti che lo detestavano. E lo temevano, perché era diventato la cattiva coscienza di non poca parte dell’intellighenzia sarda.

Per contro, anche quando non ne condividevano le idee, era amato da una moltitudine di giovani che erano stati suoi discepoli; ed era un punto di riferimento per tutti coloro che si muovevano nell’ampia variegata area del neosardismo.

Alla sua morte intellettuali e politici che lo avevano combattuto, o che lui semplicemente disprezzava, hanno fatto a gara a tesserne gli elogi, e qualcuno ebbe l’ardire di definirsi suo erede culturale. Ed è naturale che sia accaduto: i morti non possono più nuocere. Così si credeva.

Masala, però, è ritornato prepotentemente alla ribalta, quando i fatti gli hanno dato ragione, e sono stati in molti a riconoscerlo non solo durante le celebrazione del centenario che cadeva nel 2016. Era stato un profeta inascoltato e ora la sua memoria si prendeva una rivincita che lui si aspettava da vivo, perché convinto di stare dalla parte della ragione. Ma intanto non sapeva farsi una ragione di quanto era accaduto in Sardegna.

̶  Dieci mila miliardi, capite. A Rovelli hanno regalato dieci mila miliardi  ̶  ripeteva agli amici. ̶  Con tutti quei soldi avremmo potuto avere una pastorizia e un’agricoltura moderne, avremmo potuto potenziare il settore della pesca, dell’artigianato di qualità, avere un turismo diffuso a beneficio dei sardi.

E mentre citava con rabbia il fallimento dei poli industriali fondati sulla petrolchimica che avevano fatto tabula rasa della cultura contadina, puntava il dito contro la chiusura delle miniere, avvertiva la precarietà dell’industria metallurgica del Sulcis, denunciava lo sfruttamento coloniale delle risorse dell’Isola, dove non avveniva la verticalizzazione dei prodotti di base che generava valore aggiunto a beneficio di industrie lontane dalla Sardegna. Tutte cose che oggi possiamo vedere con i nostri occhi, anche con quelli che per lungo tempo sono stati affetti da cecità.

 

(La lettera della madre di Sciarlò)

 

Daniele Mele, il campanaro di Arasolè suona le campane per il ventesimo anniversario della morte dei nove compagni in Russia. Lui è  l’unico superstite dei richiamati del paese ed è la voce narrante del romanzo Quelli dalle labbra bianche, qui citato da Opere, Quartu S. Elena, Alfa Editrice, 1993.

 

I soldati sardi sono nel caposaldo tre della linea k.

 

Era arrivato l’inverno e la terra di Russia era tutta in mano della neve e del vento. Non era una neve come quella che cade, d’inverno, ad Arasolè, che è morbida, quasi calda: quella era una neve aguzza, adirata, violenta; era ghiaccio tagliato a pezzetti e gettato in faccia con forza. E il vento, il vento dell’est, che soffiava raspando, come un lupo, con la sua lingua di ghiaccio. Il cielo era sempre grigio, senza sole, basso come una miniera.

[…] Don Adamo di Orvenza era riuscito, per merito della valigia piena di formaggio e di prosciutto, ad imboscarsi nel distretto militare.

Dopo qualche mese, però, la Patria, come diceva Bellicapelli, ebbe bisogno di guerrieri e sottopose a visita medica di controllo i riformati e i sedentari.

Orvenza fu fatto abile a tutti i servizi e spedito, assieme ad altri complementi, a rimpiazzare i morti in Russia.

Il destino, non del tutto cieco, lo aveva fatto finire al caposaldo tre.

Portava con sé una lettera di Maria la lavandaia al figlio Sciarlò.

[…] Sciarlò prese la lettera della madre con mano esitante, mentre i suoi occhi si facevano ancora più ingenui e dolci. Aprì la busta e ne trasse fuori parecchi fogli e li guardò, così, tutti assieme, con uno sguardo di uccello smarrito.

Nel silenzio si sentì la voce rude di Pestamuso:

«Ohi, Sciarlò, piantala, facci un favore, leggi a voce alta la tua lettera, vedo che c’è molta roba scritta, almeno sapremo qualcosa di Arasolè, perché Orvenza è come se non ci fosse stato mai».

Sciarlò disse:

«Sì, sì», e, impacciato, cominciò a sillabare con voce lenta e rauca i caratteri grandi e infantili della madre lavandaia.

«Figlio mio caro sono Girasole Maria madre tua e questa lettera la devo dare domani mattina a Donna Filiana che deve andare in città per salutare Don Adamo che deve partire per il fronte dove sei tu e ti scrivo per farti sapere una cosa che ti farà molto piacere come a me che mi ha tolto venti anni  dalle spalle ed è che il distretto militare mi ha scritto per farmi sapere che tu sarai  congedato e mandato a casa perché sei figlio unico di madre vedova di guerra cioè io».

Sciarlò leggeva, accanto al fuoco della stufa, con voce lenta e rauca: le nostre ombre sui muri del ricovero sembravano pipistrelli appesi, congelati dal freddo e dalla paura di morire.

«Figlio mio caro ora la guerra per te è finita ma io ti scrivo per dirti che prima di partire devi leggere questa lettera ai paesani per fare sapere come stanno le cose qui e ti dico per primo una brutta notizia perché è morta Assunta la madre del tuo amico Pestamuso…» (p. 42).

 

La lettera continua con le notizie sugli altri compaesani del caposaldo, poi riprende con le parole della madre di Sciarlò rivolte al figlio.

 

«Caro figlio mio è venuta la tua fidanzata Rosa Fae e mi ha detto che ti aspetta e che ha messo sette chicchi di grano nel guanciale perché porta fortuna ma io figlio mio sto contando i giorni le ore e i minuti e ogni passo che sento la notte mi sembra il tuo passo che ritorna e ti dico che ho soldi per comprare la terra e tu sarai proprietario e le tue mani saranno bianche come un fazzoletto di seta e ti dico ritorna ritorna presto figlio mio ritorna dalla madre tua Girasole Maria».

Quando Sciarlò terminò di leggere la lettera, i fratelli Cocòi russavano sonoramente: dormivano, tanto loro due non aspettavano notizie perché, ad Arasolè, non avevano alcuno che pensasse ad essi, tranne le loro capre.

Poi, ad uno ad uno, tutti ci addormentammo dentro al ricovero.

La mattina dopo, Sciarlò, uscito dal reticolato per raccogliere qualcosa che il vento gli aveva portato via dalle mani, morì saltando in aria su di una mina a strappo.

Efisio Pestamuso strisciò sotto il reticolato e recuperò la salma di Sciarlò. Raccolse, anche, sfidando il fuoco delle mitragliatrici nemiche, un foglio di carta portato lontano dal vento: era la lettera della lavandaia Maria Girasole.

Sistemammo il corpo di Sciarlò dentro una piccola bara di legno di betulla. L’ex muratore, piccolo e magro, i capelli neri con la riga in mezzo, pareva sorridere furbescamente come quando, ragazzini, giocavamo a nasconderello nella piazzetta del nostro villaggio. Gli mettemmo in mano la lettera della madre lavandaia.

Tutti quelli di Arasolè, a turno, lo portammo a spalla, in mezzo a una tempesta di neve, fino al cimitero di guerra del boschetto.

Scavammo una fossa ai piedi di una giovane bianca betulla.

Bellicapelli non volle perdere l’occasione per fare un discorso sugli eroi morti per la grandezza della Patria. Ma noi, i compagni di Sciarlò, i richiamati di Arasolè, eravamo molto lontani… (p. 44).

 

[…] Davanti al candelabro funebre di Michele Girasole, noto Sciarlò, stanno la madre Maria Girasole e la fidanzata Rosa Fae.

Dalla Russia Sciarlò non è più tornato, sono passati venti anni, ma Rosa Fae è ancora la fidanzata di Sciarlò. Essa è, ormai, una zitella scialba e magra, con le mani nodose e grandi per il continuo lavoro, con i capelli grigi e giallastri e il viso color cartapaglia.

Rosa si era innamorata di Sciarlò perché egli era distratto, buono e distratto.

Sciarlò, da vivo, faceva l’aiuto muratore, cioè portava sulle spalle il materiale da costruzione, sulla scala di legno, fino ai muratori veri, i maestri di muro che stavano sull’impalcatura. Sciarlò era distratto.

Quando dall’impalcatura i maestri di muro gli gridavano: “Sciarlò, calce!”, Sciarlò portava mattoni; se gli gridavano: “Cemento!”, Sciarlò portava tegole. Non era mai riuscito a diventare “maestro di muro” ma gli volevamo tutti bene perché era ingenuo e buono (p. 20).

[…] Ora, Rosa Fae, zitella vedova, tutta vestita di nero, prega nella chiesetta di Arasolè per il suo caro, amato fidanzato.

Rosa, senza il minimo dubbio, ha sistemato Sciarlò in Paradiso.

E, in paradiso, secondo Rosa Fae, il suo fidanzato è diventato “maestro di muro” ed ha costruito in questi venti anni una casa che si assomiglia molto al palazzo di Donna Filiana di Orvenza, con una stanza da letto color azzurro e un grande letto matrimoniale per l’adorata, indimenticabile, fedele fidanzata Rosa Fae (p. 36).

 

CANTONE DE SOS PISEDDOS CAMPAGNOLOS

 

Cantade e ballades bois

ca sos ballos sun bostros

cand’hant a benner sos nostros

hamus a ballare nois.

 

Custa est sa festa nostra, in custas tancas

de chessa, de murdégu e de iscraréu:

alvures de cuccagna

boes de trigumoriscu

carruzzeddos de férula

morròculas de lande

e sulìtos de canna

e rughes de proinca

e nidos de calandra

e coas de tilighèrta

e òbigas de fenu

e trobèas de giuncu

e cadditos de festa

cun su fioccu in testa.

Custu est su chelu nostru:

s’ischiglia chitulàna

de su puddu a s’arvéschida,

manzaniles de lughe

de alvures e aeras,

su olu biancu e nieddu

de rundines sulenas,

picaròlos de crabas,

s’ùrulu de sos canes,

su zoccu ’e zoccadòrzia

chi si faghet sa domo,

sa oghe de su cuccu

chi contat sos annos,

sa mama de su sole,

Maria Filonzana, tessidora,

chit filat sette cabos donzi die,

falat dae su sole pro che ponner

su nie subra sa méndula,

su fogu in sa cariasa,

su ranu intro s’ispiga,

e filat, filat sette

caminèras de prata

pro che pigare in chelu.

 

Cantade e ballades bois

ca sos ballos sun bostros

cand’hant a benner sos nostros

hamus a ballare nois.

 

BALLATA DEI FANCIULLI CONTADINI

 

Cantate e ballate voi

ora i balli sono i vostri

quando verranno i nostri

allora balleremo noi.

 

La nostra festa è qui, in questi campi

di cisti, di lentischi e d’asfodeli:

alberi di cuccagna

buoi di granoturco

carrettini di ferula

trottole di ghiande

e zufoli di canna

e croci di pervinca

e nidi di calandre

e code di lucertole

e lacciuoli di fieno

e trappole di giunco

e cavalli di festa

col fiocco rosso in testa.

Qui è il nostro paradiso:

lo squillo antelucano

del gallo all’alba,

mattini luminosi

fatti d’alberi e d’aria,

i volo bianvo e nero

di rondini serene,

i campani delle capre,

il latrato dei cani,

il battito del picchio

che si fa la sua casa,

la voce del cucù

che fa il conto degli anni,

e la madre del sole,

Maria Filonzana, tessitrice,

che fila e tesse sette trame al giorno,

essa scende dal sole e mette

la neve sopra i mandorli,

il fuoco sui ciliegi,

il grano dentro la spiga,

e fila e fila sette

scalinate d’argento

per salire nel cielo.

 

Cantate e ballate voi

ora i balli sono i vostri

quando verranno i nostri

allora balleremo noi.

 

Franco Carlini è nato nel 1936 a Vallermosa (Ca), un paese di pastori, contadini e braccianti agricoli. Laureato in lettere moderne a La sapienza di Roma, dove è redattore di una rubrica politica e culturale che si teneva la domenica pomeriggio a Radio Città Futura. Nella capitale, fonda e dirige la rivista bilingue Sardigna Emigrada. Uscito da Su Pópulu Sardu, trasforma la sezione romana di questo movimento in Cìrculu sardu anticolonialista.

Carlini ha avuto una buona attività pubblicistica con scritti politici, di critica e produzione letteraria, collaborando a Il Manifesto, a Paragone-Letteratura, a Umana, a S’Ischiglia e a pressoché tutte le riviste orbitanti nell’area del neosardismo, da Su Pópulu Sardu a Nazione Sarda, da Sa Republica Sarda a Tempus de Sardinnia. Nel 1980 vince il Premio Ozieri con la poesia Terra Luazza.

Opere edite: tre raccolte di poesie bilingui, Biddaloca, Edes, 1988, Murupintu, ibidem, 1991, Sa luna inciusta,  Condaghes, 2004; una raccolta di racconti, anch’essi bilingui, S’ómini chi bendiat su tempus, Zonza, 2001, vincitrice del Premio Città di Selargius del 2002; un romanzo, Basilisa, Condaghes, 2001, Premio Grazia Deledda 2002 per la letteratura in lingua sarda; raccolte di poesie in italiano, tra cui L’asino d’argento, Quaderni del pavone, 2002, un poemetto scherzoso a due voci con Efisio Cadoni; Dialogo a una voce, ibidem, 2007; Marxani Ghiani e àteras faulas, Edes, 2005, una raccolta bilingue di favole moderne; Sa domu de s’Orcu, fiabe della tradizione sarda, Della Torre, 2011, vincitore per la narrativa del Premio Città di Quartu, 2012; Sa terra promittia, Edes, 2013; S’Isuledda-L’Isoletta; ibidem, 2016.

Saggistica: ha curato La poesia satirica in Sardegna con scritti di Giulio Angioni, Francesco Casula, Franco Fresi e Salvatore Tola, Della Torre, 2010; Raimondo Fresia – Il teatro, Edes, 2010.

Traduzioni: A Mountain Under a Bridge,  Berkeley, Carlifonia, Marimbo, 2001, raccolta di poesie tradotte in inglese da Jack Hirschman.

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  • Grazie a Franco Carlini per questo ottimo articolo su Cicittu Masala. Io non conoscevo tutte queste particolarità relativamente alla sua maniera di fare il maestro, il professore. Sapevo una cosa, che forse è una favola, cioè che ogni giorno che insegnava c’era sul suo tavolino una rosa rossa !
    Bibliograficamente conviene di aggiungere i seguenti titoli nelle traduzioni in francese:
    – Le Rire sardonique, Ed L’Harmattan, Paris, 2014
    – Histoire du théâtre sarde, L’Harmattan, Paris, 2017
    – Les Maîtres de l’eau (da Storia dell’acqua in Sardegna), L’Harmattan, Paris, 2018,
    tutte e tre traduzioni in francese a cura dello firmatario di questo commento.
    Cordiali saluti,
    Claude SCHMITT

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